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Luglio/Agosto 2018

Aftermarket auto, la digitalizzazione delle aziende procede a intermittenza

Nicoletta Ferrini

L’automotive è un settore in cui il processo di trasformazione digitale si sta concretizzando in maniera più incisiva sia per quanto riguarda la realizzazione di “smart factory”, sia per quel che concerno lo sviluppo dell’e-commerce. Non vale però a tutti i livelli della filiera: per le piccole medie imprese italiane dell’aftermarket la strada sembra in salita.
La trasformazione digitale nella filiera automotive va avanti a doppia velocità. Il settore sembra essere tra i più maturi dal punto di vista digitale, in particolare per quel che riguarda lo sviluppo dell’e-commerce e gli investimenti in “smart factory”. I dati sul commercio elettronico, raccolti ed elaborati dal Consorzio Netcomm, insieme agli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, indicano che il mercato online in Italia per quanto riguarda il segmento auto e ricambi chiuderà il 2018 con un ulteriore balzo in alto del 28% per un valore complessivo che sfiorerà i 610 milioni di euro. Una ricerca dell’Osservatorio di Fatturazione Elettronica & eCommerce B2B, realizzata in collaborazione sempre con gli Osservatori del Politecnico (1) indica, inoltre, che il valore delle transazioni B2B online nel settore valgono per il 50% degli oltre 160 miliardi di euro totali, di cui circa il 75% è riconducibile al segmento OEM (Original Equipment Manufacturer) e il resto all’aftermarket. In entrambi i comparti, inoltre, si stanno sviluppando soluzioni di integrazione digitale, con la particolarità che, nell’aftermarket, sono le realtà più grandi, vale a dire produttori e grossisti, a promuovere questo processo di digitalizzazione collaborativa.
Anche dal punto di vista dello “smart manufacturing”, l’evoluzione più sensibile sta avvenendo a monte. Le principali Case costruttrici prevedono che, entro la fine del 2022, il 24% circa dei loro impianti sarà “intelligente”. La metà dei produttori si sta già muovendo in questa direzione. I dati raccolti, in questo senso, dal Digital Transformation Institute di Capegemini indicano che l’automotive è il terzo settore dove si investe di più, dopo il manifatturiero e l’aerospaziale, ma il primo se si considerano le aziende che stanno mettendo in campo risorse pari o superiori a 250 milioni di dollari.
 

Aftermarket: digitalizzazione a freno tirato

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla paralisi nell’evoluzione digitale che, a quanto pare, sta invece interessando le piccole medie imprese della filiera aftermarket. I dati sul livello di digitalizzazione del comparto indicano che, a valle del sistema, c’è ancora molto da fare per attivare una vera trasformazione digitale: l’81,6% delle oltre 166.000 aziende del settore (dati Istat su commercio all’ingrosso, al dettaglio e riparazione di veicoli) ha un livello d’innovazione digitale che oscilla tra il basso e il molto basso. A questo, si deve aggiungere anche una diffusa mancanza di competenze ICT e di percorsi di formazione specifica.
In poche parole, le imprese dell’aftermarket automotive non sembrano lanciate verso la digitalizzazione come, invece, sta avvenendo ai piani più alti. Lo spaccato è allarmante e in questo senso in linea con il più recente rapporto Desi 2018, l’indicatore della Commissione europea che misura il livello di attuazione dell’Agenda digitale di tutti gli Stati membri. Stando a quanto emerso dall’analisi, a livello europeo, in materia di digitalizzazione, il divario tra grandi aziende e Pmi è evidente: ai progressi fatti dalle prime, in particolare sul più urgente fronte della fatturazione elettronica (18% delle aziende) e nell’utilizzo dei social media per interfacciarsi con clienti e fornitori (21%), fanno da contraltare i numeri davvero piccoli che descrivono invece i passi compiuti dalle seconde. Il Desi 2018 indica che appena il 17% delle piccole medie imprese europee ha un’attività di commercio online.
In un’Europa pressocché immobile dal punto di vista della crescita digitale e in cui il concetto stesso di mercato unico digitale sembra faticare a concretizzarsi, l’Italia è, per di più, ancora una volta nelle retrovie. Malgrado i progressi fatti nella diffusione della banda larga e in particolare rispetto agli open data, nel Desi 2018 il Bel Paese compare al 25° posto su 28 Paesi. Il tutto è confermato dai dati Istat: secondo il sesto rapporto sulla competitività dei rapporti produttivi, sono digitalizzate solo il 3% imprese nazionali. Il 63% appare “indifferente” e mostra un tasso di digitalizzazione basso.
 

Da possibile e vantaggioso a necessario e urgente

Il processo di digitalizzazione delle imprese italiane è dunque sempre meno un’opzione e sempre più un passaggio obbligato. Il tema è emerso anche durante il Fed 2018 (Forum dell’economia digitale), di recente organizzato a Milano da Confindustria giovani insieme a Facebook. L’invito rivolto alla platea, e in particolare alle aziende, è stato di cogliere al volo le sfide lanciate dalla digitalizzazione, non solo in termini di sviluppo di infrastrutture connesse, ma anche di presenza nel mondo virtuale. La parola d’ordine è: “esserci”. Le occasioni non mancano. Con circa due miliardi di utenti, Facebook rappresenta, per esempio un mercato virtuale molto interessante. Un numero crescente di aziende, anche italiane, sta utilizzando la piattaforma social e la succursale Instagram per mostrare i propri prodotti e soprattutto dialogare con un crescente numero di contatti.
E se digital è bello, mobile è meglio. Potenziare la propria presenza sul mobile significa per un’impresa accedere a un bacino di utenti enorme e rendere davvero globale il proprio business: parola di Ciaran Quilty, vicepresidente Facebook Emea per le Pmi. A supportarlo in questa sua idea sono i più recenti dati del portale di ricerca digitale Statista: dai circa 1,57 miliardi del 2014, gli utenti di smartphone si prevede saranno 2,53 miliardi a fine 2018, per toccare quota 2,87 miliardi nel 2020. Entro questa stessa data, il 37% della popolazione mondiale avrà uno smartphone e la spesa globale per mobile advertising arriverà a 250 miliardi di dollari. Come dire: chi ora si ferma (o non parte), è davvero perduto.



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