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Marzo 2018

APE aziendale e RITA: diventano operativi due nuovi strumenti per gli anticipi pensionistici

di Matteo Prioschi – Giornalista de Il Sole 24 Ore

Previsti dal governo nel 2017, l’anticipo pensionistico aziendale e la rendita integrativa temporanea anticipata sono adesso operativi. Saranno strumenti a carico del lavoratore ed eventualmente dell’azienda, ma che potrebbero essere utili anche alle aziende stesse
A fronte di requisiti standard per il pensionamento già arrivati a livelli alti (66 anni e 7 mesi di età per la pensione di vecchiaia, 42 anni e 10 mesi di contributi necessari agli uomini per quella anticipata) e destinati a crescere proporzionalmente all’allungamento della vita media, le “scorciatoie” per smettere di lavorare qualche anno prima del previsto già oggi ma ancor più in futuro saranno particolarmente apprezzate dai lavoratori. E potrebbero essere utili anche alle aziende, nel caso in cui si trovino nella necessità di ridurre il personale o di agevolare il ricambio generazionale. In tale prospettiva quest’anno sono diventati operativi due strumenti previsti dal governo nel 2017: l’Ape aziendale e la rendita integrativa temporanea anticipata. A differenza degli anticipi pensionistici del passato, però, questi non sono più a carico dello Stato ma del lavoratore ed eventualmente dell’azienda.
 
L’Ape aziendale è una variante dell’Ape volontario con cui il datore di lavoro, un ente di bilaterale o un fondo di solidarietà possono versare dei contributi previdenziali aggiuntivi a favore del dipendente. Il punto di partenza, quindi, è l’Ape volontario, che consente a una persona che smette di lavorare di incassare un reddito ponte prima di accedere alla pensione di vecchiaia (per un periodo minimo di 6 mesi e massimo di 43 mesi, salvo innalzamento dei requisiti per il pensionamento durante la fruizione dell’Ape stesso). L’importo mensile massimo che si può ricevere, in relazione alla durata dell’anticipo, oscilla dal 75 al 90% della pensione futura, mentre il minimo è di 150 euro.
Il reddito ponte è alimentato da un prestito che viene erogato da una banca tramite l’Inps e tale prestito, una volta che si va in pensione, va restituito con trattenute sulla pensione stessa per venti anni, gravato di interessi (al momento il Tan è del 2,95% ma viene aggiornato ogni due mesi), premio assicurativo caso morte (che interviene in caso di decesso del beneficiario sgravando gli eredi dal debito) e commissione di accesso al fondo di garanzia.
 
Di conseguenza con l’Ape volontario si ottiene un assegno, per un periodo di tempo limitato, di importo inferiore alla pensione futura e poi la pensione vera e propria per i primi venti anni sarà decurtata della rata di restituzione del prestito. Ad esempio un lavoratore che ha una pensione futura lorda mensile prevista di circa 1.650 euro e di 1.300 euro netti e incassa l’Ape volontario per 43 mesi con un importo mensile di 975 euro, avrà poi la pensione netta ridotta di circa 255 euro per dodici mensilità (la tredicesima sarà invece a importo pieno) per i primi 20 anni di pensione.
 
Tramite l’Ape aziendale il datore di lavoro può versare una contribuzione aggiuntiva, pari almeno ai contributi volontari per il periodo di durata dell’anticipo. Tale importo aumenta il montante contributivo del dipendente e di conseguenza l’importo della pensione futura di un valore in parte o uguale al peso della rata di restituzione del prestito. Dunque l’Ape aziendale può essere utilizzato come strumento di incentivo all’esodo di un dipendente prossimo alla pensione.
L’importo minimo da versare è pari ai contributi correlati (il 33%) alla retribuzione dell’ultimo anno di lavoro. Nel nostro esempio, vanno rapportati a 43 mesi (la durata dell’Ape volontario), per un valore di circa 33mila euro, deducibili dall’azienda. In questo modo la pensione mensile netta aumenterà di circa 100 euro, compensando in parte il “taglio” di 253 causato dalla rata di restituzione del prestito.
I contributi aggiuntivi versati dal datore di lavoro possono quindi favorire l’esodo di un lavoratore prossimo alla pensione riducendo l’onere a suo carico derivante dalla scelta di garantirsi un reddito ponte tramite l’Ape volontario.
 
La rendita integrativa temporanea anticipata (Rita) è un altro reddito ponte verso la pensione, alimentato però dal capitale accumulato dal lavoratore nella previdenza integrativa, quindi senza ricorrere ad alcun prestito. Il meccanismo è semplice: una persona a cui mancano non più di cinque anni alla pensione di vecchiaia può decidere di incassare in tutto o in parte, sotto forma di assegni periodici, il capitale maturato. Se lo usa tutto, ovviamente al momento del pensionamento non potrà contare su un assegno integrativo della pensione di primo pilastro, se viene utilizzato parzialmente si potrà avere una pensione integrativa ridotta. In entrambi i casi il datore di lavoro può accordarsi con il dipendente e versare un importo che quest’ultimo trasferisce alla previdenza complementare in modo da aumentare il capitale e poter contare su una rendita più consistente. Inoltre la Rita beneficia della tassazione agevolata che varia dal 15 al 9% in base agli anni di iscrizione alla previdenza integrativa.
 
Il punto debole della Rita è che ci si deve pensare per tempo, nel senso che la costruzione di una posizione previdenziale integrativa va sviluppata nel corso degli anni per non gravare economicamente troppo sul reddito dell’interessato. E’ stato calcolato che se si destina il trattamento di fine rapporto e un altro 3% della retribuzione (arrivando così complessivamente al 10%) alla previdenza complementare, ogni 8 anni di versamenti si ottiene un montante che consente di percepire per un anno la Rita con importo pari all’ultima retribuzione. Se ci si accontenta di una Rita all’80% della retribuzione (quindi una somma più o meno pari alla pensione futura) gli anni di contributi scendono a circa 6.
 
Da qui l’importanza di favorire l’adesione alla previdenza integrativa da parte dei lavoratori, magari indirizzati dalle imprese che, dal canto loro, almeno quelle più piccole, devono rinunciare a trattenere il Tfr in azienda. Una rinuncia oggi con la possibilità domani di avere un esodo agevolato dei lavoratori prossimi alla pensione (o magari un passaggio a orario ridotto) perché il dipendente che ha aderito alla previdenza complementare da una parte ha consapevolezza che la pensione “se la paga con i suoi soldi” e dall’altra può essere maggiormente disposto a “sacrificare” il montante accumulato per beneficiare di una flessibilità di uscita dal mondo del lavoro, a fronte di requisiti per il pensionamento destinati a innalzarsi nel corso degli anni perché legati all’allungamento della speranza di vita.
 
Oggi sta crescendo l’apprezzamento dei lavoratori nei confronti del welfare aziendale, che si articola per esempio in servizi sanitari, contributi per lo studio dei figli, servizi per il tempo libero. Con l’Ape aziendale e la Rita le aziende possono offrire una sorta di “welfare previdenziale” che consiste nell’accompagnare economicamente il dipendente anziano alla pensione. Un benefit che molto probabilmente diventerà più attrattivo nel corso del tempo.



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